Луна и костры. Прекрасное лето : книга для чтения на итальянском языке
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Тематика:
Итальянский и португальский языки
Издательство:
КАРО
Автор:
Павезе Чезаре
Год издания: 2022
Кол-во страниц: 288
Дополнительно
Вид издания:
Художественная литература
Уровень образования:
Дополнительное образование
ISBN: 978-5-9925-1549-7
Артикул: 791586.01.99
В книге представлены два произведения замечательного итальянского писателя-неореалиста, поэта и переводчика Чезаре Павезе «Луна и костры» и «Прекрасное лето». Роман «Прекрасное лето» получил главную итальянскую литературную премию «Стрега». Италия тридцатых годов, рабочая окраина Турина. На этом фоне разворачивается яркая и драматическая история любви шестнадцатилетней Джинии и художника Гвидо. Джиния стремится вырваться из тусклой реальности и живет ожиданием прекрасного лета. Героя произведения «Луна и костры», итальянца, сделавшего карьеру в Америке, манит прошлое, потому что только там, на родине, жизнь его обретет смысл — со старыми друзьями среди залитых солнцем виноградников, ореховых рощ и холмов. Но, вернувшись, герой понимает, что все изменилось — и места, и люди, и только дым костров, тлеющих и никогда не гаснущих, временами снова разгорающихся, все тот же — из прошлого…
Тематика:
ББК:
УДК:
- 3728: Методика преподавания отдельных учебных предметов
- 811131: Итало-романские языки. Итальянский язык
ОКСО:
- ВО - Бакалавриат
- 45.03.01: Филология
- 45.03.02: Лингвистика
- 45.03.03: Фундаментальная и прикладная лингвистика
- ВО - Специалитет
- 45.05.01: Перевод и переводоведение
ГРНТИ:
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Cesare PAVESE LA LUNA E I FALQ LA BELLA ESTATE LETTURA MODERNA КАР О Санкт-Петербург
УДК 372.8 ББК 81.2 Ита-93 П12 Павезе, Чезаре. П12 Луна и костры. Прекрасное лето : книга для чтения на итальянском языке / Ч. Павезе. — Санкт-Петербург : КАРО, 2022. — 288 c. — (Lettura moderna). ISBN 978-5-9925-1549-7. В книге представлены два произведения замечательного итальянского писателя-неореалиста, поэта и переводчика Чезаре Павезе «Луна и костры» и «Прекрасное лето». Роман «Прекрасное лето» получил главную итальянскую литературную премию «Стрега». Италия тридцатых годов, рабочая окраина Турина. На этом фоне разворачивается яркая и драматическая история любви шестнадцатилетней Джинии и художника Гвидо. Джиния стремится вырваться из тусклой реальности и живет ожиданием прекрасного лета. Героя произведения «Луна и костры», итальянца, сделавшего карьеру в Америке, манит прошлое, потому что только там, на родине, жизнь его обретет смысл — со старыми друзьями среди залитых солнцем виноградников, ореховых рощ и холмов. Но, вернувшись, герой понимает, что все изменилось — и места, и люди, и только дым костров, тлеющих и никогда не гаснущих, временами снова разгорающихся, все тот же — из прошлого... УДК 372.8 ББК 81.2 Ита-93 ISBN 978-5-9925-1549-7 © КАРО, 2022 Все права защищены
LA LUNA E I FALO
for C. Ripeness is all. I C’e una ragione perche sono tornato in questo pa-ese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, e quasi certo; dove son nato non lo so; non c’e da queste parti una casa ne un pezzo di terra ne delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perche no da Cravanzana. Chi puo dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sa-pere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma e per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perche la sua carne valga e duri qualcosa di piu che un comune giro di stagione. Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’e piu, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perche l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colli-ne quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno 5
scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospeda-le, oltre ai figli che avevano gia. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perche di figlie ne aveva gia due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella — due stanze e una stalla — la capra e quella riva dei noccioli. Io ven-ni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno piu di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morf la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiede-vo a Padrino perche non prendevamo altri bastardi. Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perche soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero gia un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava piu lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze. 6
L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendi'o cosf insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima — e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri — era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduc-cia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casot-to di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggi un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque piu cosi pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare piu i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novita mi scoraggio al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii if per li che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non 7
averlo nel sangue, non starci gia mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non im-porti. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di citta dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti. Meno male che quella sera voltando le spalle a Gami-nella avevo di fronte la collina del Salto, oltre Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime. E piu in basso anche questa era tutta vigne spoglie, tagliate da rive, e le macchie degli alberi, i sentieri, le cascine sparse erano come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno, seduto sul trave dietro il casotto o sulla spalletta del ponte. Poi, tutti quegli anni fino alla leva, ch’ero sta-to servitore alla cascina della Mora nella grassa piana oltre Belbo, e Padrino, venduto il casotto di Gaminella, se n’era andato con le figlie a Cossano, tutti quegli anni bastava che alzassi gli occhi dai campi per vedere sotto il cielo le vigne del Salto, e anche queste digradavano verso Canelli, nel senso della ferrata, del fischio del tre-no che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle citta. Cos^ questo paese, dove non sono nato, ho credu-to per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo 1’ho visto davvero e so che e fatto di tanti 8
piccolo paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C’e Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’e qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non e facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Pos-sibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’e il mio paese? C’e qualcosa che non mi capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per comprarmi una casa, e mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per uno che e partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti mi piace. Ma non basta. Mi piace anche Genova, mi piace sapere che il mondo e rotondo e avere un piede sulle passerelle. Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si e mai allontanato 9
dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto e arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride. II Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese, dove piu nessuno mi conosceva, tanto sono grand’e grosso. Neanch’io in paese conoscevo nes-suno; ai miei tempi ci si veniva di rado, si viveva sulla strada, per le rive, nelle aie. Il paese e molto in su nella valle, l’acqua del Belbo passa davanti alla chiesa mezz’ora prima di allargarsi sotto le mie colline. Ero venuto per riposarmi un quindici giorni e capito che e la Madonna d’agosto. Tanto meglio, il va e vieni della gente forestiera, la confusione e il baccano della piazza, avrebbero mimetizzato anche un negro. Ho sen-tito urlare, cantare, giocare al pallone; col buio, fuochi e mortaretti; hanno bevuto, sghignazzato, fatto la pro-cessione; tutta la notte per tre notti sulla piazza e an-dato il ballo, e si sentivano le macchine, le cornette, gli schianti dei fucili pneumatici. Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. I ragazzotti che correvano tra le gambe alla gente erano quelli; i fazzolettoni, le coppie di buoi, il profumo, il sudore, le calze delle donne sulle 10