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Покойный Маттиа Паскаль

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Предлагаем вниманию читателей самый известный роман знаменитого итальянского писателя и драматурга Луиджи Пиранделло. Обстоятельства жизни героя складываются неудачно для него, и он решает исчезнуть. Выиграв в казино приличные деньги, он уезжает из родного города в Рим и начинает жить под новым именем. Все считают его умершим, а он пытается начать новую жизнь, но стать по-настоящему свободным ему не удается, он разрывается между собой реальным и собой выдуманным... Книга адресована студентам филологических факультетов и всем любителям и знатокам итальянской литературы.
Пиранделло, Л. Покойный Маттиа Паскаль : книга для чтения на итальянском языке : художественная литература / Л. Пиранделло. — Санкт-Петербург : КАРО, 2018. — 224 с. - (Letturaclassica). - ISBN 978-5-9925-1306-6. - Текст : электронный. - URL: https://znanium.com/catalog/product/1047920 (дата обращения: 29.11.2024). – Режим доступа: по подписке.
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УДК 372.8
ББК 81.2 Ит-93
П 33

ISBN 978-5-9925-1306-6

Пиранделло, Луиджи.
П 33 
Покойный Маттиа Паскаль : книга для чтения 
на италь янском языке. — СПб.: КАРО, 2018. — 224 с. 
(Lettura classica).

ISBN 978-5-9925-1306-6.

Предлагаем вниманию читателей самый известный роман 
знамени того итальянского писателя и драматурга Луиджи Пиранделло.
Обстоятельства жизни героя складываются неудачно для него, 
и он решает исчезнуть. Выиграв в казино приличные деньги, он уезжает из родного города в Рим и начинает жить под новым именем. 
Все считают его умершим, а он пытается начать новую жизнь, но 
стать по-настоящему свободным ему не удается, он разрывается 
между собой реальным и собой выдуманным…
Книга адресована студентам филологических факультетов и 
всем любителям и знатокам итальянской литературы.
УДК 372.8 
ББК 81.2 Англ-93

© КАРО, 2018
Все права защищены

Луиджи Пиранделло
Il fu MattIa PaScal
ПоКойный МАттиА ПАсКАЛь

Ответственный редактор О. П. Панайотти 
Технический редактор А. А. Стуканова 
Иллюстрация на обложке М. А. Головатюк
Издательство «КАРО», ЛР № 065644  
195027, СанктПетербург, Свердловская наб., д. 60, (812) 5705497
www.karo.SPB.ru
Гигиенический сертификат 
№ 78.01.07.953.П.324 от 10.02.2012
Подписано в печать 21.03.2018. Формат 70 х 100 1/32. Бумага офсетная.  
Печать офсетная. Усл. печ. л. 9,03. Тираж 500 экз. Заказ №

Отпечатано в соответствии с предоставленными материалами  
в АО «Т8 Издательские Технологии» 
109316, Москва, Волгоградский проспект, д. 42, корпус 5.  
Тел. 8(495)3223831. www.t8print.ru

I

Premessa

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo 
era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. 
Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava 
d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche 
consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo 
gli occhi e gli rispondevo:
— Io mi chiamo Mattia Pascal.
— Grazie, caro. Questo lo so.
— E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo 
allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non 
poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:
— Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di 
scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né 
madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi 
(costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della 
tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un 
povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo 
che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di 
fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia 
famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio 
padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un 
lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e 
strano che mi faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che 
guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, 

Luigi Pirandello. Il fu Mattia Pascal
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nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che 
questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini 
de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col 
tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo 
studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e 
questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune 
si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure 
erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e 
molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li 
trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori 
mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. 
Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come 
sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al 
giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii 
così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come 
alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei 
mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a 
qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente 
a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio 
manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non 
cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte.
Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io 
sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… 
sentirete.

II

Premessa seconda (filosofica)  
a mo’ di scusa

L’idea, o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio 
reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in 
custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto 
appena sarà terminato, se mai sarà.
Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene 
dalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell’abside riservata al 
bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, 
mentre don Eligio sbuffa sotto l’incarico che si è eroicamente 
assunto di mettere un po’ d’ordine in questa vera babilonia di 
libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui 
s’era curato di sapere, almeno all’ingrosso, dando di sfuggita 
un’occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse 
donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare 
di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella 
biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là 
nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi 
libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi 
ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un 
trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di 
Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, una Vita e morte di Faustino 
Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, 
biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legature 
de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che 
nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo 
della vita e delle avventure monacali.
Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, 
arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha 

Luigi Pirandello. Il fu Mattia Pascal
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pescato negli scaffali della biblioteca. Ogni qual volta ne trova 
uno, lo lancia dall’alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; 
la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui 
due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall’abside, 
scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai 
ragni su pe’l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a 
leggiucchiarlo.
Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora 
don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul 
modello di questi ch’egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il 
loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è 
fatica per me. E poi altro mi trattiene.
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala 
e viene a prendere una boccata d’aria nell’orticello che ha trovato 
modo di far sorgere qui dietro l’abside, riparato giro giro da stecchi 
e spuntoni.
— Eh, mio reverendo amico, — gli dico io, seduto sul murello, 
col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr’egli attende 
alle sue lattughe. — Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, 
neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, 
come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: 
Maledetto sia Copernico!
— Oh oh oh, che c’entra Copernico! — esclama don Eligio, 
levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di 
paglia.
— C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava…
— E dàlli! Ma se ha sempre girato!
— Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non 
girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno 
a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una 
buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi, scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star 
questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito 
da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente 
sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo 
bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena 

II. Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa 

d’oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi 
m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare 
e non per provare?
— Non nego, — risponde don Eligio, — ma è vero altresì che 
non si sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più 
riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s’è messa 
a girare.
— E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e 
mezzo precise… La signora contessa indossò un abito lilla con una 
ricca fioritura di merletti alla gola… Teresina si moriva di fame… 
Lucrezia spasimava d’amore… Oh, santo Dio! e che volete che me 
n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da 
ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e 
gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come 
se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di 
caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire — spesso con la 
coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze — 
dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio 
mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci 
siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita 
nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore 
dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie 
particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci 
ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? 
Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, 
e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi 
sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità 
degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. 
Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi 
ne parla più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che, per quanti 
sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere 
le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non 
ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente.

Luigi Pirandello. Il fu Mattia Pascal
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Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso — se è nuvolo — ci 
lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la 
luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il 
sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. 
Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci 
di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, 
che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, 
dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre 
che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più 
brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie 
che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi 
trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita; e dunque senza obblighi e senza 
scrupoli di sorta.
Cominciamo.

III

La casa e la talpa

Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio 
padre. Non l’ho conosciuto. Avevo quattr’anni e mezzo quand’egli 
morì. Andato con un suo trabaccolo in Corsica, per certi negozii 
che vi faceva, non tornò più, ucciso da una perniciosa, in tre giorni, 
a trentotto anni. Lasciò tuttavia nell’agiatezza la moglie e i due 
figli: Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto, maggiore di me di due 
anni.
Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credere che la ricchezza di mio padre (la quale pure non gli dovrebbe 
più dar ombra, passata com’è da un pezzo in altre mani) avesse 
origini — diciamo così — misteriose.
Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte, a Marsiglia, col capitano d’un vapore mercantile inglese, il quale, dopo 
aver perduto tutto il denaro che aveva seco, e non doveva esser 
poco, si era anche giocato un grosso carico di zolfo imbarcato 
nella lontana Sicilia per conto d’un negoziante di Liverpool (sanno 
anche questo! e il nome?), d’un negoziante di Liverpool, che aveva 
noleggiato il vapore; quindi, per disperazione, salpando, s’era 
annegato in alto mare. Così il vapore era approdato a Liverpool, 
alleggerito anche del peso del capitano. Fortuna che aveva per 
zavorra la malignità de’ miei compaesani.
Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre 
non ebbe mai pe’ suoi commerci stabile sede: sempre in giro con 
quel suo trabaccolo, dove trovava meglio e più opportunamente 
comprava e subito rivendeva mercanzie d’ogni genere; e perché 
non fosse tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva a 
mano a mano i guadagni in terre e case, qui, nel proprio paesello, 
dove presto forse contava di riposarsi negli agi faticosamente 
acquistati, contento e in pace tra la moglie e i figliuoli.

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Così acquistò prima la terra delle Due Riviere, ricca di olivi e 
di gelsi, poi il podere della Stìa, anch’esso riccamente beneficato 
e con una bella sorgiva d’acqua, che fu presa quindi per il molino; poi tutta la poggiata dello Sperone ch’era il miglior vigneto 
della nostra contrada, e infine San Rocchino, ove edificò una villa 
deliziosa. In paese, oltre alla casa in cui abitavamo, acquistò 
due altre case e tutto quell’isolato, ora ridotto e acconciato ad 
arsenale.
La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre, 
inetta al governo dell’eredità, dovette affidarlo a uno che, per aver 
ricevuto tanti beneficii da mio padre fino a cangiar di stato, stimò 
dovesse sentir l’obbligo di almeno un po’ di gratitudine, la quale, 
oltre lo zelo e l’onestà, non gli sarebbe costata sacrifizii d’alcuna 
sorta, poiché era lautamente remunerato.
Santa donna, mia madre! D’indole schiva e placidissima, 
aveva così scarsa esperienza della vita e degli uomini! A sentirla 
parlare, pareva una bambina. Parlava con accento nasale e rideva 
anche col naso, giacché ogni volta, come si vergognasse di ridere, 
stringeva le labbra. Gracilissima di complessione, fu, dopo la morte 
di mio padre, sempre malferma in salute; ma non si lagnò mai 
de’ suoi mali, né credo se ne infastidisse neppure con se stessa, 
accettandoli, rassegnata, come una conseguenza naturale della 
sua sciagura. Forse si aspettava di morire anch’essa, dal cordoglio, 
e doveva dunque ringraziare Iddio che la teneva in vita, pur così 
tapina e tribolata, per il bene dei figliuoli.
Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena di 
palpiti e di sgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse di 
perderci, e spesso mandava in giro le serve per la vasta casa, 
appena qualcuno di noi si fosse un po’ allontanato.
Come una cieca, s’era abbandonata alla guida del marito; rimastane senza, si sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casa, 
tranne le domeniche, di mattina per tempo, per andare a messa 
nella prossima chiesa, accompagnata dalle due vecchie serve, 
ch’ella trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, si restrinse 
a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le molte altre alle 
scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie.

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